L'abitudine all'anormalità

Frequentavo un corso di fotografia a Madrid. Uno degli insegnanti più attenti alla creatività e all'immaginazione, piuttosto che alla tecnica, un giorno ci chiese di scrivere un breve racconto guardando tre foto; dovevamo creare una storia collegando fra loro le fotografie ed inventando un testo originale. Dopo aver finito ci chiese di leggere quello che avevamo realizzato cambiando però il soggetto e trasformandolo in prima persona. Ne venne fuori che ognuno di noi aveva scritto quello che aveva dentro, i suoi timori, le sue soddisfazioni, le sue gioie, senza nemmeno rendersene conto. Le stesse fotografie agli occhi di persone diverse hanno scaturito storie felici oppure angoscianti. Le stesse fotografie. La fotografia è un riflesso di quello che abbiamo dentro, come del resto tutte le forme d'arte. Ognuno ne sceglie il tipo, la tecnica e i soggetti che preferisce. Ognuno si sente attratto da un particolare piuttosto che un altro. Ed è probabilmente la cosa più bella che abbiamo noi esseri umani: la capacità di stupirci. Io non posso fare a meno di osservare il mondo, quello vero, quello che spesso soffre, quello che è il risultato di anni ingiusti, quello che non trova pace nè equilibrio. E, forse, quello che ho dentro, è la voglia di non restare a guardare.