Project Detail: Quanto vale un Potosí

Contest:

LuganoPhotoDays 2015 Open



Brand:

LuganoPhotoDays



Author:

Amanda

Status:
Selected

 

Project Info

Quanto vale un Potosí

Bolivia: Potosí, Cerro Rico, Miniera Pailaviri

1545: Potosí passò da accampamento minerario ad una delle città più grandi e popolose al mondo nel giro di pochi decenni, nonché una delle più alte, con i suoi 4.090 metri di altezza.

“Vale un Potosí” è ancor oggi un modo di dire in uso nella lingua spagnola per indicare cose di inestimabile valore. Già Cervantes nel Don Chisciotte fa uso di questo detto. L’argento proveniente dalle viscere del Cerro Rico ha permesso alla Spagna di prosperare e all’Europa di crescere nei secoli successivi, fino a quando la sua estrazione divenne sempre più difficile e sempre meno conveniente. Agli inizi del 1800 si passò allo stagno, ma non fu più la stessa cosa e la città cominciò a declinare.

2015: i minatori dopo 470 anni sono ancora al lavoro nelle viscere della montagna. I cunicoli che lo hanno reso simile a un “queso suiso” si dipanano dalla sommità (4,782 metri) fino ad una profondità di 1,150 metri dalla base. Le miniere ora sono gestite direttamente da cooperative, ma non producono più le ricchezze di un tempo. Il numero dei morti e dei malati, quello resta impressionante. Le condizioni di lavoro sono pesantissime, l’aspettativa di vita molto bassa - mediamente di solo 40 anni. I decessi sono causati principalmente da silicosi e dai crolli nelle gallerie.

Dopo la rivoluzione nazionalista nel 1952, le miniere furono confiscate ai “baroni dello stagno” e divennero proprietà dello stato. Ai minatori e alle loro famiglie venne garantito oltre allo stipendio, assistenza medica, materiale scolastico per i bambini, determinati quantitativi di cibo (1 quintale di zucchero e 1 di riso al mese, olio, 30 kg di carne…). Tutte misure che, dalla crisi degli anni ’80, il governo non è più stato in grado di mantenere. Nel 1986 crolla il prezzo dello stagno e le miniere vengono date in affitto alle cooperative. I minatori devono ora pagarsi aria compressa e dinamite. Il 16% del valore di quello che cavano va alla cooperativa, che in cambio fornisce assicurazione sanitaria (minima) e pensione. Niente più derrate dallo stato o materiale scolastico per i figli. Carne diversa da quella di pollo resta un miraggio. Molti vivono in baracche senza acqua corrente o elettricità.

I minerali che ancora oggi si estraggono (stagno, rame, zinco, argento) partono alla volta degli stati ricchi del mondo (Giappone, Europa, Stati Uniti) destinati alla produzione di auto, armamenti e munizioni, macchine fotografiche. Poco, pochissimo resta nelle tasche dei minatori.

In attesa di un colpo di fortuna, ci si affida allora alla Madonna (il cui culto si è sovrapposto a quello indigeno della Pachamama), al Cristo Minero e al Tio (el diablo), padrone delle ricchezze della montagna. Il demone, insaziabile, viene omaggiato con foglie di coca, alcol, sigarette, e assimilato ad un parente (tio significa zio), per far sì che non divori gli uomini che vanno a “mangiarsi” la sua ricchezza nascosta nelle viscere della montagna.

Tutto come allora. Nel 1600 il viceré del Perù, don Pedro Antonio Fernández de Castro riportava: «Non c' è nessuna nazione tanto stremata come quella di Potosí. Non è argento ciò che si esporta in Spagna, si esporta piuttosto il sudore e il sangue degli indigeni».

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