Project Detail: Fuori dal buio: donne oggi in Bosnia Erzegovina

Contest:

Women photographers exhibition 2016



Brand:

LuganoPhotoDays



Author:

Arianna Pagani

Status:
Selected

 

Project Info

Fuori dal buio: donne oggi in Bosnia Erzegovina

“Io non ho tempo di piangere, né di sentirmi vittima, né qualcuno con cui mi devo riconciliare”. Sono le parole di Kanita Focak, architetta e interprete del contingente italiano in Bosnia dal 1992 al 1995. Kanita, di madre croata e di padre italiano, ha perso il marito musulmano, tre giorni dopo l’inizio della guerra. In questi anni, non ha ricevuto nessun risarcimento, né sussidio economico.

Come lei, anche le altre intervistate, cinque voci che raccontano la vita delle donne, a ventun anni dalla fine della guerra del 1992-1995, nell’odierna Bosnia Erzegovina, divisa in due entità: la Federazione, in cui bosgnacchi e croati sono maggioranza e la repubblica Serbska con i serbi in posizione egemone.

“Non ho ricevuto nessun aiuto psicologico e nessuno mi può aiutare. Non odio ma non perdono. Se potessi, lascerei il paese oggi stesso, perché non c’è giustizia, ma ormai è troppo tardi”. Sono le parole di Dijana, donna serba, prigioniera del campo di Mussaza, rifugiata interna a Foca, dopo essere stata costretta a lasciare il villaggio nativo, Konjic. Oggi lavora nel suo orto, unico indennizzo ottenuto grazie al programma dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, cercando di alleviare il dolore delle violenze subite dai mujaheddin.

Mira, cresciuta in un miscuglio multietnico come molte famiglie di Sarajevo (il padre era bosgnacco e la madre serba), ha combattuto in prima linea a fianco dell’Armija, il nuovo esercito della Bosnia Erzegovina. “Quando è iniziata la guerra, avevo diciotto anni e ho detto a mio padre che volevo diventare soldato. Sono diventata un’infermiera di guerra.” Oggi Mira, sposata con un serbo, lavora per un’organizzazione cattolica non governativa, assistendo e appoggiando il ritorno degli sfollati interni nei luoghi di origine.

Esmuda, musulmana, sopravvissuta al campo di Trnopolie, porta avanti, insieme a altre donne vittime di stupro, l’associazione Heart of Peace in un’enclave serba. “Prima, vivevamo insieme come fratelli senza alcuna distinzione, poi la propaganda ha inserito odio nelle teste delle persone. Oggi cerchiamo di lavorare sulla memoria con i più giovani perché, ancora nel 2016, la storia della guerra è un taboo”.

E’ innegabile che il conflitto sia stato caratterizzato da una politica di sterminio nei confronti dei Musulmani di Bosnia Erzegovina ma le storie di queste donne narrano il conflitto - e gli anni seguenti - privandolo di ogni gerarchia del dolore e categoria etnica di appartenenza. Tutte ne hanno sofferto – siano serbe, musulmane o croate - e tutte, oggi, resistono in silenzio, in una società patriarcale, intrisa di retoriche nazionaliste, eredità delle divisioni sancite dagli accordi internazionali.

Testo di Sara Manisera

Photos